Poco tempo fa ho letto Outliers, libro scritto da Malcolm Gladwell, giornalista e sociologo canadese nato in Inghilterra ma cresciuto in Ontario. Se avete intenzione di leggere il libro - cosa che peraltro consiglio vivamente - dunque non volete spoiler, vi esorto a non continuare con il post. Altrimenti, dato che la lettura si è rivelata particolarmente e sorprendentemente gradevole, ho provato ad elaborare qualche pensiero su alcuni dei temi trattati e a fornire quelli che per me sono i takeaway principali di questo libro.
Effetto Roseto
Roseto Valforte è un comune italiano situato in Puglia, in provincia di Foggia.
Verso la fine del XIX secolo, quando iniziarono i flussi migratori verso gli Stati Uniti d'America, Roseto fu uno di quei paesi che videro molti dei propri abitanti lasciare il luogo in cui erano nati.
Gli emigranti rosetani si stabilirono soprattutto in Pennsylvania - all'inizio del 1900 la comunità era diventata talmente numerosa che diedero vita ad un nuovo paese, prima chiamato New Italy ed in seguito rinominato in Roseto. Ebbene si, abbiamo un paese che si chiama Roseto in Pennsylvania. Questo centro abitato da circa 1500 anime fondato da emigranti italiani è stato molto importante perché rappresenta uno caso di studio interessante riguardo la particolarità che andremo a raccontare.
Nel 1961, il dottor Stewart Wolf, allora capo della Medicina dell'Università dell'Oklahoma, incontrò il medico locale per discutere del tasso insolitamente basso di decessi per infarto miocardico negli italoamericani della comunità di Roseto rispetto alle altre località.
Si susseguirono varie ricerche: d'apprima, data l'origine della popolazione, si sospettò che le abitudini alimentari fossero più genuine rispetto al resto della popolazione. Questa tesi fu smentita appurando che i nati di seconda generazione, integrandosi con la popolazione americana, avevano ormai assunto i medesimi gusti e le medesime abitudini: cibi ricchi di grassi non saturi, salse e zuccheri.
Un nuovo tentativo fu quello di controllare se vi fosse qualche particolarità nei geni degli abitanti di prima generazione o nei loro discendenti, anche questo si rivelò un buco nell'acqua in quanto non si scoprì alcuna differenza degna di nota.
Nemmeno uno studio lungo 50 anni, che paragonava la popolazione di Roseto a quella della vicina cittadina di Bangor, diede alcun indizio.
Dal 1954 al 1961, Roseto non ebbe quasi nessun attacco di cuore nella fascia di età più ad alto rischio tra gli uomini (dai 55 ai 64 anni), e quelli sopra i 65 anni avevano un tasso di mortalità dell'1% mentre la media nazionale era del 2%.
Questi dati erano fortemente in contrasto con alcuni fatti oggettivi: gli abitanti della comunità fumavano, bevevano vino anziché latte o altre bevande, non seguivano più la dieta mediterranea bensì erano ottimi consumatori di polpette e salsicce fritte nel lardo.
Gli uomini del posto solitamente lavoravano nelle cave di ardesia, dove frequentemente contraevano malattie dovute a gas e polvere.
Infine, altro fatto curioso che vedremo essere correlato: Roseto aveva un tasso di criminalità pari a zero e pochissime richieste di assistenza pubblica.
Ad un certo punto ci si rese conto che era proprio la struttura sociale in cui vivevano questi individui a fare la differenza! Per un paese come Roseto, con poco più di un migliaio di abitanti, la struttura sociale che possedeva era molto diversa da altri luoghi simili.
Vi erano varie famiglie "allargate" composte da genitori, nonni e figli sotto lo stesso tetto. Era tipico della cultura paesana importata in America, una società fortemente chiusa in se stessa, molto coesa: le case erano vicine le une dalle altre, tutti vivevano più o meno allo stesso modo. Gli anziani erano venerati e incorporati nella vita della comunità, le casalinghe rispettate ed i padri gestivano le famiglie. Questa cultura, beneficiando di una notevole riduzione dello stress, permetteva un tasso bassissimo di disturbi cardiaci. Questa scoperta è molto importante: non c'era nulla di speciale nei singoli individui (come spesso si può pensare) bensì era speciale l’ecosistema in cui questi singoli individui erano immersi.
Questo creò anche molte difficoltà a Wolf ed i suoi ricercatori, immaginatevi di partecipare ad una conferenza medica ed ascoltare una cosa del genere...
Ma come volevasi dimostrare, quando Roseto perse definitivamente la propria struttura sociale, tipica di alcuni antichi borghi italiani, divenendo più americana negli anni successivi allo studio, i tassi di malattie cardiache aumentarono fino a diventare simili a quelli delle città vicine.
Questo fenomeno, è conosciuto anche come effetto Roseto.
Takeway numero 1: potresti non essere speciale, potrebberlo non esserlo nemmeno le persone con cui lavori, vivi, studi, frequenti, se valutate singolarmente.
Il contesto invece, quello è fondamentale!
Effetto San Matteo
Il versetto 29 del capitolo 25 del vangelo secondo Matteo recita:
Poiché a chiunque ha, sarà dato ed egli sovrabbonderà; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha.
In un italiano più contemporaneo suonerebbe come: "Il ricco diventa sempre più ricco, mentre il povero diventa sempre più povero". La religione centra nulla in questo caso, come andremo a leggere nelle prossime righe, in tutti i contesti in cui si verifica una selezione con età dei partecipanti molto bassa, si verifica questo fenomeno!
Prendiamo ad esempio il torneo di hockey giovanile in Canada: questo studio evidenzia come i giocatori più forti, ovvero quelli capaci di arrivare a giocare stabilmente in NHL, la lega hockey di massimo livello al mondo, siano quelli nati nei mesi di gennaio, febbraio e marzo.
Tutto ciò accade non perché vi sia una qualche particolare correlazione mistica tra l'hockey e i suddetti mesi, bensì perché molto più banalmente, la data dell'1 Gennaio funge da spartiacque nel dividere l'anno sportivo corrente da quello successivo. Un ragazzo nato dopo quella data potrà accedere alla competizione di un determinato anno di riferimento, mentre coloro che sono nati prima sono esclusi.
Questo tipo di criteri causano quello che in inglese viene chiamato relative age effect: i ragazzi nati all’inizio dell’anno sono fisicamente più sviluppati e più prestanti rispetto a quelli nati alla fine - parliamo di individui di età molto giovane in cui una piccola differenza può incidere sostanzialmente - per cui partiranno avvantaggiati. Questo piccolo vantaggio iniziale li farà apparire come più talentuosi, i loro allenatori e insegnanti dedicheranno loro più tempo per aiutarli a far emergere il loro talento, di conseguenza questi ragazzi saranno stimolati a provare di più. Insistendo maggiormente su di loro, avranno l'opportunità di giocare più partite e, proprio per questo, verranno selezionati con molta più probabilità rispetto agli altri. Saliranno di livello, avranno accesso ad un'istruzione e ad allenamenti ancora più avanzati rispetto ai nati alla fine dell’anno, dunque per l'effetto virtuoso venutosi a creare, miglioreranno ulteriormente le loro capacità.
Questo fenomeno non accade solo nell'hockey, lo sport in genere è uno scenario dove frequentemente si denota tale pattern (a questo link un esempio sul calcio) perché quasi tutte le federazioni utilizzano la stessa metodologia.
In principio, non vi è alcun merito reale nei ragazzi nati a inizio anno rispetto a quelli nati alla fine, semplicemente i primi hanno un piccolo vantaggio iniziale rispetto ai secondi. Col passare del tempo, questo divario diverrà sempre più grande perché il piccolo beneficio originario li avrà portati ad avere più attenzioni, istruzioni migliori, allenamenti migliori. Con queste possibilità, escluse all'altro gruppo, è naturale che riescano ad accrescere le loro capacità molto di più rispetto a coloro che rimarranno sempre dove sono e non potranno godere di tali opportunità che diverranno col tempo sempre più grandi.
Molti sono i settori in cui si può osservare un comportamento analogo, un esempio: l’istruzione. Le classi sono divise in modo che gli alunni abbiano lo stesso anno di nascita: questo è pericoloso perché, per lo stesso motivo, verranno privilegiati alcuni gruppi di studenti piuttosto che altri. Tutto questo può sembrare una banalità ma la realtà è che, tali consuetudini, costano moltissimo allo Stato e a noi di conseguenza. Si potrebbero adottare criteri di suddivisione diversi, scegliere talenti in modo molto più equo facendo emergere molte più persone. Le classi delle scuole elementari o medie, potrebbero ad esempio essere suddivise tenendo in considerazione l'anno ma anche il mese di nascita, per cui ipoteticamente in un'aula avremmo gli studenti nati da Gennaio ad Aprile, in un'altra quelli nati da Maggio ad Agosto e infine quelli da Settembre a Dicembre dello stesso anno. Certo, sarebbe più complicato a livello amministrativo, ma il costo di questa gestione non sarebbe paragonabile a quello molto più elevato di perdere potenziali talenti che non emergeranno mai, semplicemente per una politica di categorizzazione errata.
Proprio uno studio italiano condotto nel 2014, evidenzia come i voti degli studenti più giovani negli anni presi in considerazione, siano più bassi rispetto a quelli dei loro compagni di classe più grandi. Inoltre, gli studenti di scuola media nati i primi mesi dell'anno, sono più propensi a frequentare un liceo anziché un istituto tecnico. Infine, i risultati suggeriscono che non dovrebbe essere permesso agli alunni nati a fine anno, di poter anticipare la partecipazione ad un certo anno scolastico, sarebbe meglio per loro aspettare quello successivo.
Perché accade questo?
Perché si tende sempre a pensare che il successo sia una funzione individuale, in cui l'unica variabile in gioco siamo noi e la nostra voglia di fare. Ma non è così: il merito sta, sì, nella singola persona, ma l’ecosistema che la circonda è addirittura più importante.
Takeway numero 2: se credi di essere speciale, pensa ai privilegi che hai avuto di cui altre persone non hanno potuto godere.
Se ti reputi una schiappa, pensa ai privilegi che altre persone hanno avuto di cui tu non hai potuto godere, ti aiuterà a darti da fare per capire come colmare questa differenza!
Allenarsi non basta, ma sempre meglio che non far nulla!
L’autore del libro, il buon Malcolm Gladwell, sostiene che per diventare eccellenti in qualcosa vi sia una regola ben precisa: la regola delle 10.000 ore.
Secondo lui, quello che accomuna vari fenomeni in discipline differenti è il fatto di aver avuto l'opportunità di passare molto tempo ad esercitarsi con quello che, in seguito, sarebbe diventato il loro mestiere.
Lasciando perdere gli esempi più famosi al riguardo, uno su tutti i Beatles (ma se siete curiosi qui potete trovare un riassunto dei loro numeri), un caso più interessante per me, e credo anche per il pubblico che legge queste righe, è invece quello di Bill Gates.
La famiglia di Bill era di classe medio-alta: il padre, William, era un avvocato di Seattle mentre sua mamma Mary, figlia di banchieri, era una donna d'affari e professoressa all'Università di Washington. Sin da bambino, Bill si dimostra un lettore vorace, trascorre ore a studiare l’enciclopedia. Nonostante frequentasse la scuola pubblica con profitto, spesso sembra annoiato e chiuso per cui all'età di 13 anni, i genitori decidono di iscriverlo alla Lakeside School, scuola privata ed esclusiva di Seattle.
Il club delle mamme di quest'ultima ogni anno effettua una raccolta fondi da destinare a qualche progetto. L'anno in cui lo studente Gates entra a farne parte, il club raccoglie la cospicua somma di 3000$ da dedicare al terminale della scuola.
Avere a disposizione un calcolatore all'epoca, era tutt'altro che comune.
Nei luoghi in cui era presente, solitamente si trattava di sistemi batch, categoria realizzata negli anni cinquanta per migliorare i tempi d'utilizzo degli elaboratori. In quel contesto, i programmatori solitamente non avevano accesso diretto al computer, utilizzavano macchine per la perforazione di schede o nastri di carta per scrivere i loro programmi offline e una volta completati, li presentavano al personale del centro di calcolo che ne pianificava l'esecuzione.
Essi raccoglievano in un grande pacco (chiamato appunto batch) tutte le schede perforate nelle quali i vari programmatori avevano precedentemente inserito i dati che dovevano essere elaborati e i programmi che specificavano come elaborarli.
Gli operatori davano il tutto in pasto al lettore di schede perforate ed avviavano il computer per l'esecuzione. Tale processo poteva richiedere giorni per cui il programmatore era spesso inattivo durante l'attesa dell'output, generalmente stampato. In presenza di errori, cresceva notevolmente il tempo di risposta infatti il centro di calcolo era costretto a consultare l'utente, il quale a sua volta doveva compiere nuovamente un'analisi dei propri dati e, alla fine, far pervenire agli addetti le correzioni da apportare. Di conseguenza, il colloquio tra le due parti prevedeva, oltre le classiche fasi di ricezione dati e invio della risposta, anche un'eventuale serie di step intermedi legati alla comunicazione degli errori o alla richiesta di chiarimenti.
Quando tutte le schede di un pacco erano state elaborate, si proseguiva con quello successivo, riducendo drasticamente i tempi d'inattività dell'unità centrale.
Capite benissimo che un sistema del genere, seppur rappresentando un'innovazione rispetto a quelli precedenti, non fosse proprio adatto ad esercitarsi. Oggi siamo abituati a compilare il nostro programma, controllare che non vi sia alcun errore ed eseguirlo nell'arco di pochi secondi. Pensate se qualvolta che avete necessità di eseguire un vostro programma dovreste fisicamente recarvi al centro di calcolo più vicino a voi (ammesso ne esista uno a portata di mezzo di trasporto) lasciarlo li e tornare qualche giorno dopo per ritirare il risultato. Non oso immaginare il costo della dimenticanza di un punto e virgola qualsiasi...
Fortuna vuole che l'elaboratore della Lakeside School, non fosse un sistema a schede perforate ma a Time Sharing!
Quando viene inventata questa nuova metodologia di accesso al calcolatore cambia tutto perché viene ammessa la presenza simultanea di piu' processi attivi, eseguendone uno per volta a rotazione, dedicando ad esso un intervallo di tempo massimo. Era ora possibile avere, oltre che processi batch, anche processi interattivi, le cosiddette operazioni online.
Con questi nuovi sistemi, anzichè presentare fisicamente i propri programmi al centro di calcolo su schede perforate, gli utenti li digitavano direttamente su un terminale dal quale venivano trasmessi automaticamente al computer principale: un mainframe o un supercomputer che aveva il compito di elaborarli. I primi sistemi a time sharing vennero realizzati all'inizio degli anni sessanta per consentire agli utenti di interagire direttamente con il computer. L'utente, dopo aver digitato un comando sul proprio terminale, attendeva per un breve periodo di tempo fino all'arrivo della risposta da parte del computer. Tutte queste operazioni potevano essere ripetute indefinitamente fino al termine di una sessione di lavoro. I primi terminali degli utenti erano delle semplici telescriventi adattate per comunicare con un computer, poi si passò a dei terminali composti da una tastiera ed un monitor video in bianco e nero in grado di visualizzare dei caratteri di testo.
Da quel momento in poi, Bill vive buona parte della sua vita da adolescente nella sala del terminale. I computer a time sharing dell’epoca avevano un contratto a pagamento, dunque i 3000$ destinati a questa attività terminano in fretta.
Nemmeno i soldi derivanti da una seconda raccolta durarono molto ma Gates e il suo gruppo, composto tra gli altri anche da Paul Allen, non impiega molto a bypassare i sistemi di sicurezza per modificare a proprio piacimento il numero di ore da poter trascorrere al computer. Il caso vuole che alcuni studenti della Washington University fondano, nello stesso periodo, la Computer Center Corporation (chiamata anche C-Cubed), compagnia che affitta il tempo di utilizzo del computer ad altre aziende. Per puro caso, il figlio di uno dei fondatori frequenta questa scuola ed essendo una novità, il software sviluppato da questa compagnia necessita di essere testato.
Scoperto quanto accaduto, l'azienda propone ai ragazzi tempo illimitato e gratuito da trascorrere al terminale qualora in cambio avessero testato il loro software durante i fine settimana! Quante persone in quegli anni potevano avere l'opportunità di spendere ore ed ore ad un computer? E quanti, per di più, ad uno con architettura time sharing?
Bill e gli altri componenti iniziano così a frequentare prima gli uffici dell'azienda e, quando questa fallisce, il centro di calcolo dell'Università di Washington. Le conoscenze che hanno maturato, in poco tempo li portarono in contatto con un’altra azienda di nome ISI (Information Sciences Inc) che propone nuovamente tempo gratis per l'accesso al computer (più alcune royalty) in cambio della creazione di un software per la gestione delle buste paga. In sette mesi, nel 1971, Gates e i suoi collaboratori mettono assieme 1575 ore al mainframe di ISI, una media di 8 ore al giorno per 7 giorni.
Questo avviene nel periodo della loro vita in cui hanno tra i 15 e i 16 anni.
I terminali erano situati uno nel dipartimento di fisica, l'altro in quello di medicina - vi era la possibilità di utilizzarli in qualsiasi orario e nella finestra temporale tra le 3 di notte e le 6 del mattino, nessuno li prenotava.
Pur di utilizzarli durante quelle ore, Gates si alzava molto presto la mattina raggiungendo la struttura a piedi o con un bus, la sua abitazione era comunque molto vicino alla Washington University: toh, quando si dice il destino!
Mentre il gruppo di Bill lavora ad ISI, uno dei fondatori riceve una chiamata da una compagnia tecnologica chiamata TRW, la quale aveva appena chuso un contratto per la costruzione di un sistema informatico per un'importante power station nel sud dello stato di Washington, ed è alla disperata ricerca di programmatori che abbiano una certa familiarità col software.
Indovinate un po’ chi fossero ai tempi quelle poche persone ad avere esperienza su quel tipo di sistemi?
Gates trascorre la primavera seguente scrivendo codice supervisionato da John Norton, uno dei migliori programmatori in circolazione all'epoca, diventato un mentore molto importante per Bill a cui insegnò tantissimo.
Nel 1975 la svolta: Bill Gates e l'amico Paul Allen si trasferiscono ad Albuquerque, New Mexico, dove fondano la Microsoft Corporation e lanciano le prime versioni di Windows. Successivamente Microsoft vende il suo sistema Basic alla NCR Corporation e Intel, dando il via alla storia che tutti conosciamo.
Alcune riflessioni:
- Quante scuole superiori potevano avere accesso ad un computer a time sharing nel 1968?
- Quante avevano un'organizzazione come il club delle mamme con denaro sufficiente a pagare la bolletta del computer?
- Quanto poteva essere probabile che uno dei genitori di un compagno di scuola, fosse il fondatore di una compagnia che affittava il tempo d'utilizzo di questi sistemi, proponendolo in cambio del testing del loro software?
- Quali aziende avrebbero dato del lavoro a dei ragazzini come ha fatto ISI?
- Quante università potevano essere raggiungibili a piedi, con un mainframe disponibile tutti i giorni dalle 3 alle 6 del mattino?
- Quante erano le probabilità che un'azienda che necessitava di personale, chiamasse proprio ISI per la configurazione di un nuovo sistema informatico?
- Quanto è singolare il fatto che i programmatori più esperti per quel lavoro fossero dei ragazzini delle scuole superiori?
Cosa hanno in comune tutte queste domande? Bill Gates, ed il fatto che potesse avere abbastanza tempo libero per esercitare quella che sarebbe diventata la sua professione. Ebbe la possibilità di programmare no stop per sette anni consecutivi.
Quanti teenager, in quegli anni, nel mondo, hanno avuto le stesse opportunità?
La regola delle 10 mila ore è stata molto discussa, soprattutto dato l'enorme successo del libro.
Vi sono vari studi che smentiscono questa specie di teorema (qui potete leggerne uno abbastanza famoso) evidenziando come 10 mila ore o più, potrebbero non essere sufficienti a rendervi bravi in ciò per cui vi state allenando.
A mio avviso la chiave di lettura deve essere diversa, la logica non è quella di pensare che bastino molte ore di pratica per essere bravi, piuttoto è un buon modo per ricordarsi che spesso il talento da solo non basta, e che metodo, pratica e perseveranza possono pagare di più.
Se una persona talentuosa riesce a unire le sue capacità a questo tipo di dedizione, allora tanto meglio.
Ok gli studi preposti a smontare tali supposizioni, ma non essendo una legge matematica mi sembra ovvio affermare che allenarsi duramente non dia la certezza di eccellere, ma personalmente la considero comunque una condizione necessaria anche se non sufficiente.
Takeway numero 3: esercitarsi duramente non è garanzia di diventare dei fuoriclasse, ma è pur sempre un passo molto importante verso l'obbiettivo. Non fare nulla per accrescere il proprio talento, se mai fosse presente, è deleterio. Come si suol dire, mira alla luna, al peggio finirai tra le stelle...
Non siamo un numero
Il quoziente intellettivo rappresenta, nell’immaginario di molti, il parametro standard per capire se una persona avrà successo o meno nella propria carriera lavorativa o, in generale, nella vita. Potremmo disquisire ore sulla definizione di successo, ognuno di noi ha differenti scopi da raggiungere durante la propria esistenza, tutti diversamente realizzabili con vari gradi di difficoltà. Per comprendere il concetto alla base della seguente teoria, assumiamo che successo sia sinonimo di avere una posizione lavorativa importante e ricca di soddisfazioni, con le implicazioni che ne conseguono.
Lewis Terman, professore di psicologia alla Stanford University durante la metà del XX secolo, era interessato ai test di intelligenza e si appassionò all'idea di trovare giovani geni - definiamo genio colui che ha un QI con punteggio intorno a 150 o superiore - monitorandone le vite, le carriere e i risultati. Nell'arco degli anni, il professore riuscì ad intervistare e selezionare circa 1500 bambini, provenienti da ogni angolo degli Stati Uniti, con QI eccezionalmente alto. Questi, in teoria, avrebbero dovuto diventare persone estremamente note nei campi più nobili della società ed il suo studio sarebbe divenuto uno dei più famosi della storia perché avrebbe dimostrato di saper predirre il successo in maniera razionale ed oggettiva.
Quando i bambini selezionati raggiunsero l'età adulta, le previsioni riguardo il loro futuro furono smentite: per la legge dei grandi numeri alcuni avevano ovviamente avuto successo, la maggior parte aveva una carriera buona (ma non eccezionale come ci si aspettava) mentre molti altri semplicemente svolgevano lavori alla portata di tutti. Terman concluse che il legame tra intelligenza e successo non era affatto chiaro.
Come mai guardiamo con attenzione a questo risultato? Perché il QI dovrebbe essere percepito in maniera diversa da quella a cui siamo abituati, più simile ad una soglia di sbarramento che ad un numero rappresentante il nostro potenziale. Una persona normalmente intelligente ha un punteggio che si attesta tra 100 e 120. Molto raramente alcune persone, potenzialmente geni, arrivano fino a 200 e non è detto sia del tutto positivo, uno studio dimostra come avere un punteggio molto elevato comporti disturbi anche gravi.
Un fenomeno importante è che si può notare una differenza marcata tra i singoli individui appartenenti alla categoria di persone che hanno un punteggio compreso tra 0 e 120: una persona con QI pari a 70 sarà decisamente diversa rispetto ad una con punteggio 100.
Sorprendentemente però, questa discrepanza si assottiglia se si guarda alla categoria di persone con quoziente intellettivo da 120 in su e paragonando un individio con punteggio 150 ad uno con punteggio 200, non si riscontrano differenze così marcate.
È stato ampiamente dimostrato che qualcuno con un QI di 120 tende a pensare meglio di qualcuno con un QI di 100 e la persona con QI più alto, in media, ha più successo nell'istruzione e nella vita in generale. Ma una volta raggiunta la soglia di 130, la relazione si interrompe: uno scienziato con un QI di 180 ha le stessa probabilità di vincere un Premio Nobel di uno il cui QI è 130.
In altre parole, dopo aver raggiunto la soglia, sei abbastanza bravo da eccellere nel tuo campo, per cui qualcuno con un QI superiore del 50% al tuo non avrà il 50% in più di possibilità di successo.
Una metafora divertente che si può applicare per comprendere questo concetto è quella del basket: per essere un giocatore di pallacanestro, una delle qualità fisiche pressoché indispensabili è l'altezza, per cui fingiamo che il quoziente intellettivo sia l’altezza di un determinato giocatore. Possiamo arbitrariamente decidere una soglia e verosimilmente asserire che per giocare a buoni livelli in una squadra di basket, un giocatore debba essere alto almeno 1,80m. Banalmente, possiamo considerare quel valore come una soglia al di sotto della quale non è possibile diventare un eccellente giocatore. Se volessi provare a giocare ad alti livelli dovrei sperare di essere alto almeno quanto la soglia, ma una volta superata, non farebbe troppa differenza essere 1,80m o 2m perché non è detto che quest'ultimo sia necessariamente più forte nonostante sia più alto.
Superata la soglia minima entrano in gioco molteplici altri fattori: controllo palla, agilità, ecc...
Semplicemente, al di là di essa vi sono altre caratteristiche che influenzano la bravura di un giocatore che non si può giudicare dalla sola altezza.
Alla stessa stregua si dovrebbe intendere il quoziente intellettivo: sono stati fatti vari esperimenti su gruppi di persone con QI molto alto, si è notato sorprendentemente come queste persone, durante l'avanzamento della loro carriera lavorativa, non fossero necessariamente impiegate in mansioni superiori rispetto a coloro che avevano un punteggio minore ma pur sempre oltre la soglia - dunque di almeno 120. Questo perché, come nell’esempio sopra, entrano in gioco tanti altri fattori quali la creatività, la capacità di lavorare in team, la sensibilità nel capire le altre persone e innumerevoli altre caratteristiche. Tutte variabili che, al pari di altre soft skill, non sono prese in considerazione nel test che misura il QI.
Sfortunatamente, l'idea che il quoziente intellettivo rappresenti una soglia va contro la nostra intuizione, tendiamo a pensare che i vincitori del Premio Nobel siano persone con un QI di 200, ma semplicemente non è così.
È più probabile che una persona con QI di 130 diventi il migliore in un certo campo rispetto a qualcuno con un QI di 180.
Takeway numero 4: avere un QI molto alto non è sufficiente a spiegare se - o come mai - le persone hanno "successo", abbiamo bisogno di sapere molto di più su di loro.
Questione di pratica
Esiste un altro tipo di intelligenza oltre quella analitica di cui abbiamo discusso nel paragrafo precedente, è l’intelligenza pratica.
La prima è innata, un dono che possediamo dalla nascita, la seconda dipende fortemente dalle esperienze vissute durante la crescita perché al contrario di quanto avviene con l'intelligenza analitica, il suo utilizzo si manifesta durante l'ordinarietà di situazioni strettamente connesse all'individuo. Poiché è abbastanza raro che esse vengano simulate nei classici test di valutazione, la sua misurazione è piuttosto complicata; inoltre, solitamente esistono diverse possibili risposte corrette e più di un metodo per arrivare all'ipotetica soluzione.
In soldoni, l'intelligenza pratica è la capacità di affrontare e risolvere con successo situazioni e problemi nuovi o sconosciuti sapendo cosa dire e a chi, quando dirlo e come, massimizzando l’effetto desiderato.
È il sapere come fare qualcosa senza necessariamente sapere perché, è la conoscenza che aiuta a leggere le situazioni in modo corretto per ottenere ciò che si vuole.
Il concetto di intelligenza pratica riflette l'idea di possedere diverse abilità oltre le mere capacità analitiche, una sorta di buon senso che guida gli individui nella gestione e nella scelta delle decisioni nelle situazioni della vita reale e li porta a fornire risposte appropriate, comportamenti opportuni rispetto alle circostanze, tenendo in considerazione gli obiettivi a breve e a lungo termine.
È un'intelligenza diversa da quella misurata dal punteggio del quoziente intellettivo, è ortogonale, la presenza di una non implica necessariamente l’altra e viceversa. Si può possedere parecchia intelligenza analitica ma scarsa intelligenza pratica, oppure cospicua intelligenza pratica ma esigua intelligenza analitica. In casi molto particolari e fortunati, si può essere ricchi di entrambi ma ciò significa che una persona deve avere i mezzi e le opportunità per acquisire e sviluppare questo tipo di intelligenza.
Tale concetto rappresenta uno dei punti principali di questo libro, evidenziando come, più di ogni cosa, la classe sociale determina i fattori ambientali che contribuiscono alle probabilità di successo di un bambino. La ricchezza di una famiglia predice se i bambini di quella famiglia impareranno o meno le abilità fondamentali per avere successo nel mondo di oggi. I bambini più ricchi imparano a manipolare e personalizzare gli ambienti che li circondano. I bambini più poveri, invece, imparano semplicemente ad adattarsi.
Queste sono implicazioni importanti se vogliamo affrontare e risolvere le disparità di opportunità. Dato che la classe sociale ha un peso troppo importante sul successo, la malintesa comprensione di esso da parte della società porta moltissimi altri potenziali talenti a non emergere mai. Il concetto che Gladwell vuol far emergere è: il nostro attuale sistema ha chiaramente degli errori, ma non deve necessariamente rimanere immutato.
Takeway numero 5: Gli agenti che portano al successo non possono essere ad appannaggio di alcuni solamente, e sapere cosa causa il problema è fondamentale per risolverlo.
Dal passato con furore
Oltre ai fattori analizzati fin qui, che rappresentano situazioni contemporanee durante la vita di una persona, vi sono elementi che influenzano la propria crescita giungendoci dal passato, un po' come il nostro accento regionale: nessuno decide di averlo, ma finiamo per parlare in quel modo.
Nel XIX secolo, ai piedi dei monti Appalachi nel sud degli Stati Uniti, vivevano, tra gli altri, due famiglie: gli Hatfields e i McCoys.
Gli Hatfield erano capeggiati da William Anderson Hatfield detto Devil Anse, e i McCoy da Randolph McCoy, per gli amici Rand'l, ciascuno dei quali diede la vita a ben 13 figli (alcune fonti dicono 16 per McCoy). Le famiglie vivevano sui lati opposti di un ruscello di confine, il Tug Fork, i McCoy nella contea di Pike in Kentucky, gli Hatfields nella contea di Logan (oggi contea di Mingo, formata da una parte della contea di Logan nel 1895) nella Virginia Occidentale. Ciascuna fazione poteva annoverare tra le sue fila numerosi parenti e alleati nelle rispettive contee di residenza.
Queste due famiglie sono tristemente note per quella che è considerata una vera e propria guerra: la Faida Hatfield-McCoy, le cui origini non sono chiarissime.
C'è chi l'attribuisce alle ostilità formatesi durante la guerra civile americana, in cui i McCoy erano unionisti e gli Hatfield erano confederati, altri alla convinzione di Rand'l McCoy che un Hatfield avesse rubato uno dei suoi maiali. Tuttavia, sebbene le animosità si fossero accumulate sfociando in scontri occasionali, il primo grande salasso si verificò nel 1882, quando Ellison Hatfield fu ucciso a colpi d'arma da fuoco in una rissa e, per vendetta, gli Hatfield rapirono e giustiziarono tre fratelli della fazione antagonista.
Da allora in poi Hatfields e McCoys si sono ripetutamente tesi imboscate ed uccisi a vicenda, membri dell'una e dell'altra famglia arrestati nelle rispettive contee venivano regolarmente rilasciati o assolti dalle loro azioni a causa della loro influenza locale. I combattimenti raggiunsero il culmine quando il giorno di capodanno del 1888, un gruppo di Hatfield attaccò la casa del patriarca Rand'l McCoy, mancandolo ma uccidendo un figlio ed una figlia, bruciando le loro case. Per rappresaglia, un gruppo di McCoy guidato da un vice sceriffo della contea di Pike, effettuò successive incursioni varcando il confine della Virginia Occidentale, riuscendo a catturare un gruppo del clan Hatfield per accusarli a processo in Kentucky. Il West Virginia intentò una causa al tribunale federale per rapimento e illegalità.
Quando la questione divenne una diatriba tra stati, i giornali di tutto il paese iniziarono a portare in prima pagina le storie della faida ed inviare giornalisti. Il tutto si risolse quando nel maggio 1888, la Corte Suprema degli Stati Uniti stabilì che il Kentucky aveva il diritto legale di trattenere gli accusati, che furono processati. Le pene furono esemplari: una condanna a morte per impiccagione e otto detenzioni.
Anche se in seguito ci furono altre fiammate, la faida si placò gradualmente e si concluse entro il secondo decennio del XX secolo.
Sebbene questa sia la più famosa, nello stesso periodo storico in luoghi vicini, non era inusuale incappare in scenari molto simili: esistono documenti che provano faide uguali in tutto lo stato del Kentucky.
Gladwell dice:
Quando una famiglia litiga con un'altra, è una faida. Quando molte famiglie combattono tra loro in piccole città identiche sulla stessa catena montuosa, è un pattern.
La causa di questa situazione è ciò che i sociologi chiamano cultura dell'onore, che prevede la difesa della propria reputazione ad ogni modo, anche uccidendo o morendo per essa in modo eroico. Il motivo, come spesso accade, è da ricercare nel nostro passato: le popolazioni il cui sostentamento principale era fornito dall'agricoltura o dal commercio, dovevano stringere buoni rapporti con quelle limitrofe, ed anche se alcuni frutti venivano rubati, non era un grosso danno perché sarebbero ricresciuti di lì a poco. Gli allevatori, di contro, non potevano permettersi di avere un carattere buono, qualora qualche animale fosse stato rubato, avrebbe rappresentato una grave perdita economica, per cui le persone che vivevano di questo, dovevano farsi trovare pronte e spietate, proprio per dare l’esempio e far da monito verso eventuali malintenzionati futuri.
In alcuni luoghi il principio di legalità è meno diffuso a causa (anche) delle caratteristiche del territorio: vastità, isolamento, difficoltà di attraversamento... In questi posti emerge la cultura dell’onore, una cultura in cui tutti cercano di crearsi fama di uomini che ricorrono facilmente alla violenza come deterrente contro il furto o altri comportamenti predatori.
Il rovescio della medaglia è l'atteggiamento generalmente più cortese e amichevole nei confronti del prossimo perché nessuno cerca di mettere in dubbio la reputazione degli altri e tutti tentano di scongiurare potenziali conflitti facendo leva sull’onore reciproco, sulla lealtà o il tenere fede alla parola, che è il motivo per cui in questo tipo di cultura abbondano i valori legati alla religione, all’amicizia e alla famiglia.
Le popolazioni nel nord della Gran Bretagna vivevano in questo modo, quindi non ci stupiamo quando scopriamo che gli abitanti originari dei monti Appalachi discendevano da pastori scozzesi e irlandesi, emigrati da queste parti in cerca di condizioni migliori. Il loro sostentamento dipendeva dal fatto che fossero temuti e rispettati abbastanza da non permettere a nessuno di rubare il loro bestiame.
Un dato interessante riguarda il tasso di omicidi in quella zona, più alto rispetto al resto del paese.
Ma indovinate un po'? I crimini stranieri, commessi da uno sconosciuto verso un altro, sono i più bassi.
La violenza da queste parti è sempre stata una questione personale. Gladwell riconosce di fare ampie generalizzazioni e osserva che essere scettici al riguardo è perfettamente plausibile perché vogliamo ben credere di non essere prigionieri delle nostre storie etniche. Tuttavia non possiamo comprendere appieno la cultura del presente se non teniamo conto delle nostre origini perché le eredità culturali sono forze potenti. L'autore ci tiene a sottolineare come anche le tradizioni e gli atteggiamenti dei nostri antenati hanno un impatto, e se prendessimo più seriamente i retaggi culturali potremmo usarli per comprendere meglio il successo.
Per provare o meno l'ereditarietà comportamentale, si sono svolti molti esperimenti, uno su tutti quello effettuato da Dov Cohen e Richard Nisbett, due psicologi che nel 1996 si recarono all’Università del Michigan con la scusa di dover condurre un esperimento sulla percezione.
Nisbett e Cohen reclutarono diverse persone provenienti dal nord e dal sud degli Stati Uniti. Chiesero loro di compilare un finto test: in realtà la vera sperimentazione non era in quei fogli di carta!
I soggetti erano invitati a percorrere un corridoio stretto e lungo per raggiungere l'aula in cui avrebbero effettuato il test. Durante la camminata però, dalla parte opposta sarebbe sopraggiunto un complice alto due metri con un peso di cento kg! A questo colosso era stato chiesto di procedere nella sua direzione a passo sostenuto, dando una spallata o insultando la povera vittima nel caso non si fosse scansato.
A quanto pare, in termini statistici, le reazioni dei soggetti mostrarono differenze significative a seconda del luogo di provenienza.
Gli studenti del nord erano meno inclini nel controbattere, prendendo la situazione con ironia per sdrammatizzare.
Molti studenti del sud invece si arrabbiavano in modo inaudito, quasi arrivando a causare una scazzottata.
Un fatto molto importante da far presente è che l'Università del Michigan è un’università molto importante, gli iscritti fanno parte di famiglie benestanti: lo studente medio è figlio di un manager o dirigente medio/alto di aziende della portata di Coca-Cola, per cui noi stiamo parlando di soggetti non intellettuali, neppure poco istruiti o cresciuti con una vita disagiata. Per chi fosse interessato ad approfondire gli esperimenti dei due psicologi, ho trovato questo documento molto interessante.
Takeway numero 6: con questi discorsi si rischia sempre di cadere negli stereotipi e bisogna fare estrema attenzione. Il concetto è semplicemente non ignorare la forte influenza del nostro patrimonio culturale per comprendere il presente se vogliamo apportare cambiamenti al futuro.
Contare i chicchi
Cosa hanno in comune dei campi di riso, essere bravi in matematica e la perseveranza?
Per sottolineare quanto sia importante la nostra identità culturale, ci sono alcune considerazioni del libro molto interessanti.
Iniziamo considerando il linguaggio del sistema numerico usato in Asia: esso è fatto in modo che permetta alle persone, in particolare ai bambini, di iniziare a contare in età molto precoce, riuscendo a memorizzare i numeri in maniera più facile.
Facciamo un confronto tra le parole utilizzate in italiano, in inglese ed in cinese per pronunciare i numeri situati nella colonna sinistra delle seguenti tabelle.
In questa prima tabella non notiamo nulla di strano, si conta da 1 a 10 con 10 parole diverse sia in italiano che in inglese e cinese. Presto le cose si fanno più interessanti:
In inglese, per contare da 11 a 20 si devono imparare altri dieci nuovi vocaboli, per cui da 1 a 20 un bambino deve conoscere 20 parole diverse l'una dall'altra. In italiano la situazione è molto simile: se consideriamo i numeri 17, 18 e 19 come l'unione di dieci più la rispettiva unità, le quali sono parole già assimilate dal conteggio dei primi dieci numeri, per contare da 1 a 20 servono 17 termini distinti.
In cinese, per contare da 11 a 20 non servono parole nuove rispetto quelle che si usano da 1 a 10, quindi se un bambino sa contare fino a 10, allora può contare automaticamente anche fino a 20.
Estendendo il concetto:
In inglese, ma anche in italiano, per contare da 21 a 100 vengono introdotte otto nuove parole (tutti i numeri in cui cambiano le decine, più cento). In cinese, per contare da 21 a 100, viene introdotta una sola novità: la parola cento.
Sorprendentemente, in cinese non vengono utilizzati nuovi termini per poter contare da 11 a 99.
In totale in italiano, per contare da 1 a 100 si devono conoscere la bellezza di 25 vocaboli differenti mentre sono 28 in inglese. In cinese il conteggio da 1 a 100 richiede solamente la conoscenza di 11 parole: una differenza profonda con un impatto notevole nell'apprendimento dei bambini. All'età di 4 anni, un bambino di lingua inglese riesce a contare in media fino a 15 mentre uno della stessa età che vive in Cina può contare mediamente fino a 40.
Non solo, anche le operazioni matematiche sono più semplici grazie alla rappresentazione cinese, ciò permette ai bambini di imparare le operazioni in età minore rispetto ai loro compagni in occidente. Per lo stesso meccanismo visto nei paragrafi precedenti, un piccolo vantaggio in età molto piccola può diventare un divario sempre più grande, tant'é che che diversi ricercatori ipotizzano che una delle ragioni plausibili per cui i bimbi appartenenti ad alcune culture asiatiche sembrerebbero mostrare un'elevata competenza in discipline matematiche sin dalla tenera età, potrebbe attribuirsi a qualcosa che nulla centra con la matematica: è più facile imparare a contare in cinese che in italiano o inglese perché richiede meno parole. Sebbene i numeri siano i mattoncini su cui si erge la matematica, forse la lingua gioca un ruolo nascosto nel rendere questa materia più facile da apprendere.
Quanto riportato è solo uno degli innumerevoli aspetti che contribuiscono a fare di una persona, un ottimo studente di matematica. Altri fattori possono avere un peso considerevole, come l'organizzazione dell'istruzione.
Un’altra eredità culturale importante a prima vista scorrelata è la modalità in cui si è sviluppata l’economia in Asia.
Dalla notte dei tempi, tantissimi coltivatori di riso cinesi lavoravano più duramente di ogni altro agricoltore al mondo per produrre quanto più riso possibile. Le coltivazioni di riso richiedono perfezionismo e vigilanza costante, non ci sono vacanze e le giornate sono lunghe e senza eccezioni. Più un agricoltore lavora e ottimizza la sua risaia, più riso produrrà e, dato che il ritorno economico è direttamente proporzionale alla quantità prodotta, più guadagno potrà ottenere. Alcuni stimano che il carico di lavoro medio di un coltivatore di riso in Asia sia di tremila ore all'anno!
L'attività di coltivazione del riso era talmente diversa dalla coltivazione del grano degli agricoltori europei che un sistema come il feudalesimo del vecchio continente non avrebbe potuto funzionare: tra il XIV e il XV secolo i padroni terrieri cinesi affittavano letteralmente le loro terre ai coltivatori di riso, i quali potevano godere di un lavoro autonomo: gestivano un'attività tutta loro e corrispondevano una specie di affitto dal costo fisso a beneficio dei proprietari. Questo rappresentava uno stimolo non indifferente nel trovare soluzioni intelligenti per incrementrare la produzione: tutto il surplus sarebbe rimasto nelle loro tasche.
In Europa invece, i contadini erano una specie di schiavi a basso costo, tutto ciò che dovevano fare era piantare il grano ed aspettare speranzosi di vedere la pioggia cadere dal cielo, con un controllo sul proprio destino pressoché nullo. Quando si voleva incrementare la produzione ci si affidava alla tecnologia: aratri di nuova concezione o innovativi strumenti per la coltivazione. In Cina tutto ciò non era possibile perché i coltivatori non avevano questa potenzialità economica e dovevano ingegnarsi implementando soluzioni a basso costo.
Collegandoci con i punti discussi nei paragrafi precedenti possiamo notare come questa attività, tramandata nei secoli di generazione in generazione, sia caratterizzata da un lavoro duro, coinvolgente, intellettualmente rigoroso che richiede necessariamente molte ore di pratica.
Unendo persistenza ed attitudine al duro lavoro, applicata al fatto che storicamente per necessità le persone di questa zona spendono mediamente più tempo su un problema di difficile risoluzione, può rappresentare un indizio per cui sembrerebbe che persone provenienti da quest’area siano più brave in matematica.
Come sempre, quando is affrontano discorsi statistici di questo tipo si deve assolutamente evitare di alimentare stereotipi. Purtroppo non è raro l'affiorare di discriminazioni riguardo persone asiatiche quando si tratta di carriere in altri campi, ad esempio nell'arte: forse i bambini cinesi hanno un leggero vantaggio quando si tratta di calcoli, ma perpetuare lo stereotipo secondo cui i bambini cinesi sono bravi in matematica semplicemente perché sono asiatici, nega il duro lavoro e lo sforzo fatto durante il loro percorso di istruzione. È interessante cercare di isolare i fattori che contribuiscono ad un evidenza di questo genere ma senza perdere di vista il duro lavoro svolto dalle singole persone nel raggiungere i loro traguardi.
Takeway numero 7: studiare culture diverse permette una visione più chiara sulle dinamiche di crescita e di formazione delle persone appartenenti alla stessa, in questa maniera se ne possono apprezzare i pregi e combattere i pregiudizi.
Conclusioni
C'è una caratteristica che accomuna tutte queste storie (se leggete il libro ne troverete molte altre), non è il più intelligente ad avere successo ma nemmeno la sola somma di tutti i nostri sforzi può assicurarci di arrivare lì dove speriamo. Il successo è un'occasione, un regalo casuale celato dietro una situazione inaspettata, che solo a volte può essere colta.
Nascere nella famiglia giusta o nel mese corretto, in una posizione geografica favorevole, avere la fortuna di possedere dei genitori con un adatto bagaglio culturale, tutte variabili al di fuori dal nostro controllo.
Siamo storicamente fissati dal mito del self made man che pensiamo avere successo sia una caratteristica intrinseca della natura, ma non è così.
Prendiamo il caso di Bill Gates: solamente un bambino nel mondo ebbe l'opportunità di poter spendere tempo illimitato ad uno dei più avanzati sistemi di calcolo dell'epoca, se milioni di altri ragazzini avessero avuto la stessa possibilità, quante altre Microsoft sarebbero nate?
Per avere un mondo corretto, ci si deve battere per eliminare i vantaggi che casualità di questo tipo offrono ad alcuni piuttosto che ad altri, solo allora potremo vivere in un posto dove nessuno parte avvantagiato e tutti hanno la stessa possibilità di succedere.
Infine, faccio fatica ad apprezzare tutti quei libri che illudono le persone giurando di portarle al successo, quei ridicoli manuali scritti da guru che ammaliano i lettori con la promessa di rivelare la (inesistente) formula per diventare quanto di più nobile in questa vita, che ti dicono che puoi fare tutto quello che vuoi se lo vuoi o addirittura solamente focalizzandoti col pensiero.
Questo non è un libro che spiega come avere successo, bensì l'esatto opposto. È un saggio con riferimenti bibliografici e scientifici, equilibrato e realista, perché la formula magica non esiste, e se vogliamo davvero combinare qualcosa, non ci resta che lasciare il mondo in cui viviamo, un posto migliore di come lo abbiamo trovato.